Lo confesso. Prima che una serie di fortunate coincidenze mi consentisse di potermi definire “scrittore a tempo pieno”, nella vita ho svolto vari mestieri, sempre in attesa della grande svolta che potesse caratterizzare la mia esistenza. Una quindicina di anni fa ero molto giovane e inesperto ed ero ancora iscritto all’Università: per motivi di pura sopravvivenza accettai di esercitare l’attività di rappresentante di commercio per conto di una ditta di Bologna che produceva articoli per ferramenta.
La mia area d’azione era molto ampia: comprendeva Milano città, tutta la provincia sud-occidentale e le province di Pavia, Alessandria e Cuneo. Non è stato un periodo particolarmente felice della mia vita e non mi piace ricordarlo, ma l’ho voluto raccontare perché a quei tempi nacque la mia passione per la cucina cantonese, quella che si può degustare nei classici ristoranti cinesi a poco prezzo, già allora in grande espansione in ogni angolo d’Italia.
Al cinese per i sorrisi
Il continuo viaggiare cui ero costretto dal mio mestiere mi obbligava a mangiare spesso fuori casa, mezzogiorno e cena. Se uno dei due pasti poteva tranquillamente essere sostituito da un panino, almeno una volta al giorno era per me assolutamente indispensabile allungare le gambe sotto il tavolo. Ovviamente, non avevo molti soldi da spendere e quindi le mie preferenze andavano a trattorie con menu fisso e pizzerie di terz’ordine. Dopo alcuni mesi, inevitabilmente, non ne potevo più di margherite e calzoni, spaghetti col pomodoro e scaloppine al limone, insalate verdi e patatine fritte. Ma quello che non sopportavo assolutamente, ben più della monotonia dei menu, era l’assoluta mancanza di calore umano, di sorrisi, di gentilezza che riscontravo nei locali da me frequentati. Da questo punto di vista, l’incontro con il ristorante cinese, per quanto di bassa categoria, si rivelò una sorpresa piacevole. Si spendeva poco, si mangiava discretamente ma, soprattutto, si veniva ricoperti di attenzioni: sorrisi, gentilezze, spugnette calde per lavarsi le mani, birra cinese sicuramente più sana dei vinacci sfusi che mi potevo permettere in trattoria. Ero assolutamente consapevole che i sorrisi erano finti, ma per un povero rappresentante di ferramenta rappresentavano quasi un miraggio, dopo giornate pesanti trascorse a cercare di vendere trapani e chiavi a brugola, martelli e silicone a ferramenta svogliati e perennemente nervosi.
La mia vita, per fortuna, ha poi preso l’indirizzo giusto che conoscete. Un romanzo best-seller per alcuni mesi in testa alle classifiche di vendita, un po’ di saggistica, conferenze e contratti di consulenza: eccomi divenuto, sulla soglia dei quarant’anni, uno scrittore di (quasi) successo com’era nei miei sogni. E dopo tanti anni e tanti chilometri trascorsi su una Fiat Uno Turbo Diesel color verde militare (acquistata a rate da un amico) ho chiuso con le automobili e da tempo, come avrete notato, mi muovo soltanto in moto.
Più di una volta, però, mi è venuta voglia di riprovare, per un giorno soltanto, a rivivere quel periodo non certo felice, alla ricerca non del tempo perduto ma, perché no?, di un ristorante cinese a prezzo fisso in cui ritrovare ancora quei sorrisi e quelle gentilezze, finti ma assai piacevoli. Il ricordo si concentra su un ristorante di Tortona, in provincia di Alessandria: non so perché la memoria mi porta proprio in quel posto, comunque mi ricordo bene il suo nome, “Drago Rosso”, forse perché ci sarò stato almeno una dozzina di volte. Lo cerco sul Web, c’è ancora. Allora, organizzo. Siccome ormai è novembre e la moto è a riposo fino a primavera, devo innanzitutto trovare dei complici automuniti. E’ almeno un mese che non vedo Alberto e Stefania, protagonisti involontari del mio week-end full-immersion con le grigliate (vedi puntata precedente): loro sono i partner ideali per una gita a Tortona con pranzo al ristorante cinese. Li chiamo, domenica sono liberi. Si va.
Attenti alle calorie…
Il ristorante è assolutamente identico a come me lo ricordavo. Stesso arredamento, stessi lampioncini rossi, stessa musica inqualificabile: solo le cameriere, gentili e sorridenti, non sono più quelle di allora; lo deduco dall’età, ammesso che i cinesi invecchino alla nostra stessa velocità: questo avranno al massimo vent’anni… ai miei tempi, al massimo potrebbero essere state bambine.
Siccome il ristorante è praticamente vuoto, anche se siamo solo in tre ci lasciano accomodare sul grande tavolo rotondo al centro della sala. Dopo una rapida lettura del menu (che mi pare dimostrare invece tutti i suoi quindici anni) ci troviamo ad attendere quello che abbiamo ordinato. La mia scelta è caduta su: involtini primavera (due), ravioli grigliati (quattro, ebbene sì, ne vado pazzo!), spaghetti di soia fritti con gamberetti, maiale in agrodolce. Ovviamente, riso cantonese innaffiato da salsa tamari, e come bevanda birra cinese. E non dimentico il dessert, gelato fritto. Lo so, è un’autentica schifezza, ma mi è sempre piaciuto.
Tutto bene, fatto salvo che Stefania, che aveva ordinato i funghi cinesi alla griglia con soia, si vede recapitare pollo con mandorle, che lei detesta. Poco male: ho una fame blu e mi mangio anche la sua pietanza.
Alla fine, come si conviene, sakè per tutti. Me ne scolo tre bicchierini, tanto non devo guidare…
… anche se si può facilmente rimediare
Ci alziamo da tavola che sono già quasi le quattro del pomeriggio. Propongo una rapida passeggiata per Tortona, tanto per smaltire il torpore che mi avvolge. Stefania, che un po’ di dietologia se ne intende, mi fa notare che mi sono ingurgitato almeno 3200 calorie. A giudicare come mi sento, deve aver ragione.
Per fortuna che a casa, a solo un’ora di macchina, mi attendono le mie beneamate macchine per il fitness, con le quali potrò presto rimettermi in forma e limitare i danni della mia ingordigia cinese. 45 minuti di ellittica a un livello di difficoltà del 3% mi consentiranno di perdere il peso acquisito rispettando una frequenza cardiaca che mi permetta di bruciare i grassi e non gli zuccheri, facile da calcolare grazie alle tabelle allegate.
Paolo
Vsb:t